Piccole considerazioni sull'ebbrezza del pedalare verso l'alto
Collana: Piccola filosofia di viaggio
“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”. Così Marco Pantani cercava di spiegare il senso di quello che faceva: la vertigine della salita. Quando il Pirata scattava si fermava l’Italia. I suoi allunghi erano diventati una sorta di rito orgiastico di massa. Via la bandana, la testa bassa, le mani sul manubrio nella posizione dello sprint, la smorfia di dolore che sembrava un sorriso amaro. Nella salita, da sempre, da quando è nato il ciclismo - in questo straordinariamente vicino all’alpinismo - c’è il momento più alto di uno sport che parla con il sudore, i muscoli e il cuore oltreché con le ruote e i pedali. Una pretesa assurda quella di cercare di conquistare le salite. Sfida al proprio limite e alla fatica che per una strana alchimia, fisica ma anche interiore, si trasforma in ebbrezza e gioia intima soltanto all’arrivo. In alto. Dove l’infinitamente piccolo si trasforma in tutto.
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